Se è vero, come pensa Khalil Gibran, che l’arte è un passo dalla natura all’infinito, allora mi pare proprio di vedere Stefania Camilleri sospesa nel salto, immemore del tempo e dello spazio, strappare al silenzio i liquidi colori dei suoi onirici acquerelli che sono come un solvente finalizzato a sciogliere la realtà nel mito e mettere in scena un’idea dipingendone l’essenza.
Un proverbio nigeriano sostiene che…” c’è un limite in quello che vediamo, ma non in quello che non vediamo”.
Forse per questo è cosi intrigante ed ipnotica la luce che emana dai suoi acquerelli e ti trascina in territori della memoria e della fantasia lontanissimi dalle mappe consunte della banalità quotidiana.
E ciascuno ci metterà del suo nell’annegare nell’amniotico “Blu di Tor Caldara” o si metterà ad aspettare insieme a Stafania un “Refolo di vento” e poi magari si abbandonerà all’indolente “bonaccia” della sua “Deriva” e, finalmente, concluderà la sua “Odissea” approdando in un’ “Isola felice” con “La barca dell’io”. Non so voi, ma io me la immagino cosi, e per questo devo ringraziare Stefania Camilleri, apparire all’orizzonte… prima una striscia bianca, poi, sopra, una fascia verde, come un foulard sulle spalle di una fanciulla nuda; diciamo un po’ come la Szymborska immagina la poesia, cioè, rimanere in silenzio con me stesso, finalmente, veramente me stesso, di fronte ad un foglio di carta bianca, insomma, nel pasoliniano vuoto puro dell’esistenza senza futuro.